In tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza ricorrendone le condizioni di legge ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie condizioni psicofisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale.
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Sentenza
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza del 2/5/2011 la Corte d’Appello di Milano ha respinto il gravame interposto dai sigg. Z.L. e P.V. in relazione alla pronunzia Trib. Monza 15/10/2007, di rigetto della domanda dai medesimi proposta in proprio e quali legali rappresentanti del figlio minore Ma. nei confronti della sig. M.A. e della società Centro Politerapico s.r.l. di risarcimento dei danni lamentati in conseguenza della mancata rilevazione da parte della prima, in sede di ecografia morfologica eseguita presso quest’ultima il (OMISSIS) nel corso della 21^ settimana di gravidanza della Z., della malformazione del nascituro, venuto alla luce il (OMISSIS) “completamente privo della mano sinistra”.
Avverso la suindicata pronunzia della corte di merito i sigg. Z. e P., in proprio e nella qualità, propongono ora ricorso per cassazione, affidato a 4 motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso la M., che ha presentato anche memoria.
L’altra intimata non ha svolto attività difensiva.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il 1^ motivo i ricorrenti denunziano “violazione e falsa applicazione” della L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b).
Si dolgono che, nel riprendere le “palesemente illogiche e contraddittorie” argomentazioni della CTU, la corte di merito abbia escluso la sussistenza nella specie di una situazione idonea a legittimare l’eventuale scelta di interruzione della gravidanza erroneamente ritenendo che il grave pericolo per la salute psichica della donna debba coincidere con il “rischio suicidario con un’approssimazione vicina al 100%”, laddove il “grave pericolo per la vita della donna è il presupposto richiesto dalla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. a, ed è anche il requisito previsto dal successivo art. 7, comma 3 qualora il feto abbia possibilità di vita autonoma; ma non è affatto condizione per l’applicabilità del’art. 6, lett. b)”.
Con il 2 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1218, 1223 e 1225 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente basato la decisione sul “mancato soddisfacimento di un onere probatorio di certezza assoluta con approssimazione al 100%”, laddove “il criterio della certezza degli effetti della condotta omessa è stato espressamente abbandonato in favore di quello della probabilità degli stessi e dell’idoneità della condotta a produrli ove posta in essere”, in tema di responsabilità civile valendo il principio della “preponderanza dell’evidenza”.
Lamentano che il danno subito è non solo quello alla salute ma anche “il danno esistenziale ed economico riconducibili all’inadempimento del sanitario in termini di causalità adeguata”, e che “qualora l’imperizia del medico abbia impedito alla donna di esercitare il proprio diritto all’aborto e ciò abbia determinato un danno alla salute della madre, è ipotizzabile che da tale danno derivi un danno anche alla salute del marito”.
Con il 3 motivo denunziano ”
Insufficiente contraddittoria” motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Si dolgono che la corte di merito abbia erroneamente inteso la CTU laddove non ha considerato che era stata ivi data risposta positiva al quesito se la “situazione si sarebbe sostanzialmente modificata”
qualora i genitori “avessero iniziato le cure sei mesi prima della nascita di Ma.”.
Con il 4 motivo denunziano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1223 e 2043 c.c., art. 32 Cost., art. 212 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si dolgono che la corte di merito abbia rigettato la domanda di risarcimento del “danno psichico e relazionale” sofferto dal minore Ma. erroneamente affermando che nel nostro ordinamento non esiste un diritto a non nascere o a non nascere se non sano.
Lamentano non essersi dalla corte di merito considerato che “il nascituro, concepito all’epoca del fatto illecito, e che sia successivamente nato, è personalmente titolare di un diritto all’azione per ottenere il risarcimento dei danni ingiusti provocatigli da tale fatto”.
I motivi, che possono congiuntamente esaminarsi in quanto connessi, sono infondati.
Come le Sezioni Unite di questa Corte hanno avuto modo di affermare in tema di responsabilità medica da nascita indesiderata, il genitore che agisce per il risarcimento del danno ha l’onere di provare che la madre avrebbe esercitato la facoltà d’interrompere la gravidanza ricorrendone le condizioni di legge ove fosse stata tempestivamente informata dell’anomalia fetale; quest’onere può essere assolto tramite praesumptio hominis, in base a inferenze desumibili dagli elementi di prova, quali il ricorso al consulto medico proprio per conoscere lo stato di salute del nascituro, le precarie
condizioni psicofisiche della gestante o le sue pregresse manifestazioni di pensiero propense all’opzione abortiva, gravando sul medico la prova contraria, che la donna non si sarebbe determinata all’aborto per qualsivoglia ragione personale.
Orbene, nell’impugnata sentenza la corte di merito ha fatto invero sostanziale applicazione dei suindicati principi.
In particolare là dove, essendo “pacifico che nel caso in esame si versi nell’ipotesi di cui all’art. 6, in quanto ormai decorso, al momento dell’effettuazione dell’esame ecografico di cui si discute, il termine di novanta giorni indicati dal precedente art. 4”, ha posto in rilievo come il giudice di prime cure abbia “correttamente impostato la questione verificando, alla luce del dato normativo e delle risultanze in atti, se ricorressero in fattispecie “processi patologici tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna””.
Ancora, nella parte in cui ha posto in rilievo come il giudice di prime cure sia del pari correttamente pervenuto a “negare che sussistesse una situazione tale da poter legittimare, a termini di legge, un’eventuale scelta di interruzione della gravidanza da parte di Z.L.”, condividendo la ravvisata “non ricorrenza di un grave pericolo per la salute psichica di Z.L.” nonchè la valutazione che l'”introduzione, con quattro mesi di anticipo, delle terapie di sostegno, non sarebbe stata evenienza in grado, comunque, di apportare apprezzabili modificazioni sull’evoluzione del processo patologico”.
Infine, là dove ha sottolineato la correttezza della considerazione secondo cui la circostanza che “un determinato sintomo patologico permanga nel tempo” non equivale “ad affermare che si tratti di un sintomo grave”.
Ribadita l’insussistenza nel caso degli “elementi integrativi la fattispecie legale” delle “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute della donna”, la corte di merito ha per altro verso negato che “il primo giudice non abbia considerato che i coniugi, se tempestivamente e correttamente informati, sarebbero arrivati al parto preparati, a differenza di quanto è avvenuto”, al riguardo sottolineando come il giudice di prime cure abbia in effetti “preso in considerazione l’evenienza”, pervenendo tuttavia ad escludere “che la sofferenza psichica dagli stessi manifestata potesse essere evitata o lenita ove si fossero potuti trovare nella condizione che in concreto è invece mancata di conoscere tempestivamente la presenza della malformazione”.
L’ordinamento non ammette infatti il c.d. “aborto eugenetico”, prescindente cioè dal “serio” o dal “grave pericolo” per la “vita” o la “salute fisica o psichica” della donna (v. Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767; Cass., 29/7/2004, n. 14488; Cass. 14/7/2006, n. 16123; Cass., 11/5/2009, n. 10741. E già Cass., 22/11/1993, n. 11503).
Atteso che alla L. n. 194 del 1978, art. 1 risulta posto il principio in base al quale lo Stato “tutela la vita umana dal suo inizio”, con l’ulteriore precisazione che l’interruzione della gravidanza “non è mezzo per il controllo delle nascite” (cfr., da ultimo, Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767), si è da questa Corte posto in rilievo che, mentre entro i primi novanta giorni l’interruzione della gravidanza può essere ammessa quando, anche in ragione di “previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”, la prosecuzione della gravidanza o il parto comportino un “serio pericolo” per la “salute fisica o psichica” della gestante (L. n. 194 del 1978, art. 4), dopo i primi novanta giorni, essa può essere eccezionalmente consentita solo quando a) la gravidanza o il parto comportino un “grave pericolo” per la “vita della donna” ovvero b) siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un “grave pericolo” per la “salute fisica o psichica della donna”.
Ciò in quanto l’interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la
salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente); le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano solo nei termini in cui possano cagionare il danno alla salute della gestante medesima, e non in sè e per sè considerate con riferimento al nascituro (così Cass., 29/7/2004, n. 14488).
A tale stregua, come questa Corte ha già avuto modo di porre in rilievo, pur riconoscendosi alla L. n. 194 del 1978, art. 1 il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, e quindi all’autodeterminazione, l’interruzione della gravidanza è ammissibile solo nelle ipotesi normativamente previste in cui sussista un pericolo per la salute o per la vita della gestante, sicchè la sola esistenza di malformazioni del feto non incidenti sulla vita o sulla salute della donna non consentono l’accesso all’aborto (v. Cass., 29/7/2004, n. 14488).
Alla L. n. 194 del 1978, art. 6, lett. b è espressamente previsto che idonei a determinare “un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” sono solamente “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”.
Orbene, nell’esercizio dei propri poteri i giudici del doppio grado di merito hanno correttamente accertato essere la malformazione de qua (mancanza della mano sinistra) inidonea ad incidere sulla vita e sulla salute dell’odierna ricorrente, con congrua motivazione escludendo che essa possa integrare il presupposto normativo in argomento (“Sottolineando… come neppure il consulente di parte attrice, con valutazione effettuata ex post, avesse definito come grave il danno psichico di Z.L. (in quanto nella classificazione dallo stesso fornita, contemplante quattro fasce di gravità lieve, rilevante, grave e molto grave lo aveva definito “rilevante” e da collocarsi “nella parte alta della fascia che va dal 10% al 33%)” il Tribunale ha ritenuto che l’interruzione della gravidanza non avrebbe potuto essere lecitamente praticata in quanto non sarebbe stato ravvisabile in concreto “un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. Ciò avrebbe pertanto impedito di ritenere sussistente qualunque danno derivante dal mancato esercizio di tale preteso diritto, in concreto insussistente”).
In altri termini, dai giudici di merito si è correttamente escluso che la mancanza di una mano integri la ricorrenza dello stesso presupposto (“rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro”) normativamente previsto ai fini della configurabilità del requisito del “grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” legittimante l’eccezionale possibilità di farsi luogo, dopo i primi 90 giorni di gravidanza, alla relativa interruzione.
Quanto al danno fatto valere dallo stesso nato disabile, va per altro verso osservato che come dalle Sezioni Unite di questa Corte precisato non ne è invero in radice data la stessa configurabilità, in quanto “la ragione di danno da valutare sotto il profilo dell’inserimento del nato in un ambiente familiare nella migliore delle ipotesi non preparato ad accoglierlo” si rivela sostanzialmente quale mero “mimetismo verbale del c.d. diritto a non nascere se non sani”, andando pertanto “incontro alla… obiezione dell’incomparabilità della sofferenza, anche da mancanza di amore familiare, con l’unica alternativa ipotizzabile, rappresentata dall’interruzione della gravidanza”, non essendo d’altro canto possibile stabilire un “nesso causale” tra la condotta colposa del medico e “le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita” (così Cass., Sez. Un., 22/12/2015, n. 25767).
Senza per altro verso sottacersi che il danno del nato disabile risulta nella specie dai genitori invero prospettato come conseguenza del danno da essi asseritamente subito, laddove, stante la suindicata ravvisata relativa insussistenza, a fortiori difetta lo stesso presupposto per la configurabilità di un pregiudizio che si assume esserne conseguentemente derivato in capo al nato.
Il ricorso, assorbito ogni altro e diverso profilo, va dunque rigettato.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo in favore della controricorrente M., seguono la soccombenza.
Non è viceversa a farsi luogo a pronunzia in ordine alle spese del giudizio di cassazione in favore dell’altra intimata, non avendo la medesima svolto attività difensiva.
PQM
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in solido, delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre a spese a
generali ed accessori come per legge, in favore della controricorrente M..
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modif. dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 27 settembre 2016.
Depositato in Cancelleria il 11 aprile 2017